martedì 29 novembre 2011

una storia da raccontare

Una storia non raccontata è una storia persa.
Non ricordo quando e dove lessi una simile frase, ma è senz’altro certo che una storia intrappolata nella tua fantasia o nella tua memoria sia inevitabilmente destinata a perdersi, per cui vorrei raccontarvi della storia di un ragazzo che si era innamorato del vento.
Sì, avete capito bene: amava, odiava e adorava perdersi nel vento, annullarsi per lui, come un amante inebriato dal suo stesso amore.
Perché, vi chiederete.
Perché il vento gli aveva portato via quanto di più caro avesse al mondo. O almeno così gli sembrava ad appena quindici anni.
***
Questa è una storia nata dalla spuma del mare di una piccola isola, spersa nel tacito mediterraneo, culla di bellezza e ricchezza, seppur a volte si riveli crudele, estremamente crudele, come una donna bella ma fatale.
Il ragazzo appena adolescente, passeggiando per le vie assolate del paese, vide un giorno arrivare insieme a tanti altri disperati, una giovane ragazza. Aveva la pelle color dell’ebano, i suoi lineamenti erano delicati ma terribilmente segnati: Dalla stanchezza, dalla guerra, dall’oblio che probabilmente aveva vissuto, ma al giovane pescatore sembrava la donna più bella che avesse mai visto. Non aveva mai guardato la televisione, salvo rare occasioni, per cui non aveva mai fantasticato su qualche valletta,modella o ballerina etc. Leggeva tanti libri però. Ed, inevitabilmente, finiva per innamorarsi dei personaggi.
E quella ragazza gli ricordava proprio uno di quei personaggi dei libri di avventura che aveva letto e amato.
***
Un anziano insegnante, stanco della vita, aveva deciso di finire i suoi giorni (così diceva) in quella bella e maledetta isola, dove la realtà più cruda del mondo non pensava potesse raggiungerlo.
La bontà e la crudeltà ,però, vanno di pari passo con la presenza dell’essere umano; Difficile sfuggirne. E questo lo sapeva bene, ma amava illudersi, del resto aveva passato la sua esistenza ad essere pragmatico ed ormai era solo.
Tutte le mattine amava passeggiare sulla spiaggia, per poi fermarsi al piccolo porto ad osservare i pescatori tornare con casse piene di pesce fresco. Un giorno, però, notò che uno dei più giovani teneva fra le mani segnate dalle reti un libro, “I dolori del Giovane Werther”. Incuriosito, si avvicinò, raschiò la sua voce e col modo da vecchio insegnante burbero crucciò lo sguardo e si rivolse al ragazzo : “ Bene, vedo che qualcuno su quest’isola ama la letteratura”.
Il ragazzo, lo osservò per qualche istante. Poi rispose: “ Non l’ho ancora iniziato a dir la verità, l’ho trovato sul comodino dell’hotel, qualche turista deve essersene dimenticato e il proprietario, amico di mio padre, l’ha lasciato a me”.
“ Uhm, capisco” continuò col tono di voce sorda, “ e quando avresti intenzione di leggerlo?”.
“ Il prima possibile. Adesso, devo andare”. E si allontanò con le pesanti casse, sorridendo.
Da quelle prime e imbarazzate parole, i due capirono che c’era qualcosa che li legava.
Il giorno successivo il giovane si limitò ad aspettare l’anziano al porto, ansioso di raccontargli quanto quel libro gli fosse piaciuto, con la spontaneità che può caratterizzare un ragazzino gioviale ed entusiasta. Non aveva paura dell’insegnante, del resto era giovane, sì, ma aveva iniziato a lavorare molto tempo prima e sapeva quanto le persone più severe siano anche le più sincere ed infondo le più buone, questo lo aveva imparato da suo nonno.
L’insegnante, da parte sua, adorava il suo entusiasmo, e se a volte finiva per lanciargli degli sguardi di disapprovazione, non sapeva resistere a lungo con quel tono cattedratico che lo aveva accompagnato per anni nelle aule imponenti di palazzotti, popolate da figli, per lo più annoiati, di alti borghesi. Ne era fin troppo stufo. E il tutto finiva in una risata. Ma c’era un grande rispetto tra i due, quasi tra gentiluomini d’altri tempi.
Così il giovane, ogni mattina dopo la pesca, andava a casa dell’insegnante, che orgoglioso di avere uno studente appassionato, lo sommergeva di libri e di appunti delle sue lezioni di letteratura.
Entrambi erano sereni, specialmente quanto nei mesi invernali il ragazzo non andava in barca, ma svolgeva un raro lavoro di manutenzione al porto. Un factotum insomma, che si dava da fare e che era amato da tutti in quel piccolo paese sperduto.
Fino a che non arrivò colei che venne denominata nei suoi sogni “perla nera”.
***
L’anziano insegnante aveva passato un intero anno insieme al ragazzo e pareva ringiovanito . La passione e il sorriso rinnovano l’ anima. E lo sapeva bene il giovane che sentiva pulsare nelle vene la forza della vita, sempre di più. In ogni suo gesto, in ogni sguardo, si sentiva fiero e capace di qualsiasi cosa, instancabile e intenso come un eroe romantico. Ma gli mancava qualcosa, e non capiva cosa.
Nel giorno del suo quindicesimo compleanno, bussò come di consueto alla porta dell’anziano, ma non trovò nessuno. Solo un foglio spuntava dalla cassetta della posta: “Per il mio allievo più capace”.
Aprì il foglio e non vi trovò scritto nulla.
Fissò ancora per un po’ quel bianco vuoto, che sapeva di assenza, di mancanza.
Poi, lo infilò in tasca e iniziò a passeggiare per il paese, convinto che quel messaggio volesse dire qualcosa, qualcosa di molto profondo, ma che gli sfuggiva.
E in quel momento, vide lei.
Non era sola, certo, ma il suo sguardo aveva scelto lei, solo lei, come se il resto del mondo, i suoi compaesani accorsi per aiutare e per controllare, persino il mare e il sole non esistessero se non per lei e attorno a lei. Il vento, gelido e imprevedibile dell’autunno, però lo svegliò da quel sogno.
La piccola imbarcazione, già precaria si rovesciò vicino al porto, dove l’acqua era ancora profonda, così senza esitazione, corse veloce come non aveva mai fatto in tutta la sua vita, neppure quando rincorreva i gabbiani sulla spiaggia nell’assurdo tentativo di sfidare il loro volo.
Tolta rapidamente la giacca, si tuffò e nel limpido blu la trovò mentre senza forze, con gli occhi ben aperti, si lasciava portare via dal mare.
La prese tra le sue braccia e la portò in superficie, sino alla spiaggia, mentre altri pescatori stavano salvando altri compagni di sventura.
La sdraiò, e nel suo sguardo vuoto, vide l’abisso più nero.
Rimase turbato a tal punto da scoppiare in un pianto disperato e straziante. Il medico accorse, la rianimò e la portò al suo ambulatorio.
Per tre lunghe notti, e ancora più lunghi giorni, non si mosse dalla scomoda sedia posta vicino al letto d’alluminio nella bianca stanza, dove lei giaceva.
Il medico era preoccupato. Disse che era probabilmente stanca di vivere a tal punto da non aver neppure la forza e la voglia di lottare, nonostante la giovane età. Doveva avere sui quattordici o sui quindici anni, ma dentro era ben più vecchia. E lui, che aveva fatto il missionario, lo sapeva bene.
L’anziano insegnante chiamato, poco dopo dalla madre del giovane, preoccupata perché il figlio non voleva né rientrare per dormire, né mangiare, non ebbe il coraggio di dirgli nulla. Si sedette al suo fianco. E rimase in silenzio. Fino a che, alzandosi per tornare a casa all’ora del tramonto, il ragazzo con stanca rabbia gli afferrò il braccio e con un filo di voce lo maledì per non avergli mostrato con tutte le sue belle parole quanto fosse crudele la vita.
Aveva provato il dolore di un dito spezzato dalle reti troppo pesanti, gli urti nelle partite con gli amici, lo schiaffo del padre arrabbiato, ma niente di tutto questo faceva così male.
L’insegnante non rispose, svincolò il braccio e uscì dalla stanza. Il ragazzo allora lo inseguì e gli urlò in faccia tutto il suo malessere. Poi, si lasciò abbracciare, ancora singhiozzante. Piangeva, ma era come se non avesse più lacrime, e poco dopo si addormentò.
Svegliato dal chiarore del sole che filtrava dalle finestre, vide che l’insegnante e la madre stavano sonnecchiando in due poltrone lì vicine. Il padre, doveva essere ancora in mare.
Cercò la ragazza nel letto al suo fianco, ma non c’era più.
Lo sgomento gli annebbiò la mente. La madre si svegliò e cercò di rasserenarlo, dicendo che andava tutto bene. Si arrabbiò anche con lei, come non aveva mai fatto prima di allora e le disse di uscire. Nel frattempo, l’insegnante si era alzato e dal fondo della stanza lo osservava immobile. Poi si avvicinò.
“ Non ti ho insegnato che cosa sia il dolore, perché non lo si può fare. Credimi, se avessi potuto lo avrei senz’altro fatto. Non sopporto vederti così, mi ricordi mia moglie quando perdemmo il nostro unico figlio. Era un’anima sensibile e non ce l’ha fatta. Si è lasciata morire. Io invece, superbo e distante, ho guardato in silenzio; non piangevo perché non avevo lacrime, il mio cuore era arido, freddo, ed in quel momento fu come se fosse andato in mille pezzi, perché con quella fitta che quasi mi ha portato via, ho compreso che la mia vita era finita ancor prima della loro. Non avevo vissuto per molti anni ”.
Il ragazzo lo guardò intensamente con gli occhi sbarrati, poi si scusò. Non poteva sapere quanto anche lui avesse sofferto. Era stato crudele.
“ Hai la rabbia tipica dei giovani. Va bene. Non sono in collera con te, hai vissuto una scena straziante, sei sconvolto. Nessuno dovrebbe vedere quanto male si sia in grado di fare … E io credevo di esserne fuggito ”.
In quel momento, entrò il medico.
Guardò il ragazzo e sorrise. Non se ne erano accorti perché stavano tutti dormendo, ma la ragazza si era svegliata, e l’aveva portata in cucina a mangiare. Non doveva aver mangiato da giorni. Disse che l’avrebbe riportata lì a momenti. Poi uscì.
Una silenziosa gratitudine cosparse la stanza.
Il ragazzo si alzò di scatto e cercò di rendersi presentabile, con la spavalderia di chi vuole fare bella figura.
Lei, arrivò poco dopo. Tutti le si avvicinarono, ma era impaurita e diffidente; preferì essere sorretta dalla madre dal ragazzo. Sedutasi sul letto, indicò il ragazzo e gli fece il gesto di avvicinarsi. Probabilmente il medico doveva averle spiegato quanto si fosse impegnato per salvarla e quanto le fosse stato vicino, oppure lo sapeva semplicemente in cuor suo, perché avvicinatosi, gli accarezzò il volto e con lo sguardo lo ringraziò, come solo con gli occhi si può fare.
***
Passarono intere giornate in riva al mare, senza scambiarsi neppure una parola.
Del resto, non servivano le parole. Bastavano i gesti e gli sguardi: Adorava sognare di perdersi tra i suoi corvini capelli che, scossi dal vento incessante, si confondevano sul suo volto, costringendola a raccoglierli e a mostrare un timido bianco sorriso; una falce di luna immersa nella notte della sua pelle color ebano. I suoi lineamenti erano stati incisi da mani crudeli, ma niente poteva confondere la sua imperante bellezza.
E il ragazzo, raccontando con molte pause e occhi sognanti le sue giornate, all’improvviso chiese all’insegnante come fosse possibile che si comprendessero così a fondo senza neppure scambiarsi una parola. Aveva passato ore ed ore a leggere e a fantasticare a chissà quale ragazza avrebbe scritto lettere
struggenti come quelle di eroi romantici, e adesso, tutto quello che aveva imparato pareva che non gli servisse.
L’anziano iniziò a ridere.
E il giovane lo guardò indispettito. “Tu non mi prendi sul serio”.
“Assolutamente, rido perché la tua ingenuità è fuori dal comune. In anni di insegnamento, ho visto ragazzi più piccoli di te molto più smaliziati di tanti adulti, e questo mi fa sorridere. Hai la fortuna di essere fuori dal mondo e di prenderne nella semplicità solo il meglio”. Fece una pausa, poi proseguì: “ Vedi, le parole non sono sempre essenziali, conta molto di più cosa ti dice il vento che soffiando attraversa il tuo cuore … e tu, pescatore, lo conosci bene”.
“Il vento?” chiese con sguardo interrogativo.
“Sì, il vento che ha condotto sino a qui la tua amata, il vento che quasi te l’ha strappata via dalle braccia … il vento che porta lontano i baci e i sogni di amanti distanti, e che benevolo ti concede i suoi sorrisi di gratitudine”. “Rispetta il vento, che può donare quanto togliere, sconquassare o soffiare leggero come una brezza accompagnando la tua attesa”.
“Farò di più”, disse il ragazzo, “ lo amerò per quanto mi ha dato e gli chiederò perdono per averlo odiato. Lo seguirò nel volo dei gabbiani e da lui imparerò lingue lontane”. Detto questo, estrasse dalla tasca della giacca il bianco foglio e iniziò a scrivere una poesia.
MaRea (M.R.)
dama di corte

domenica 16 ottobre 2011

Interposizione 1 (sì la mia speranza è che ce ne possano essere molte, ma molte altre)

Un semplice annuncio: è appena stato creato il sito ufficiale dell'Associazione Culutrale Re Dancan.
Chi volesse mettersi in contatto col Re, adesso, potrà farlo anche da lì (vedere fra "Contatti")

amministratore
Nuove porte dorate si stanno spalancando...

L'amministratore Nic

giovedì 6 ottobre 2011

Lettera senza destinatario di un manovratore di mortaio

Cara Bariş,

questa è una lettera senza destinatario quindi non pretendo che arrivi nelle tue mani.
La lascio così, in balia del vento, che sia Dio a falla arrivare a te se veramente lo vorrà.
Mi trovo trinceato dietro le montagne della penisola di Gallipoli, a centinaia di Km da te che vivi la guerra da dentro l'ospedale di Ankara, mentre io la vivo da qui.
Per l'ennesima volta spero che tu stia bene.
Nel giro di un mese ti ho scritto centinaia di lettere, migliaia di parole, un miliardo di emozioni, tutte con il tuo nome riportato sul retro della busta.
Non so quante te ne siano arrivate, non so quante tu ne abbia lette, non so quante tu ne abbia capite...avresti dovuto avere la possibilità di rispondermi, la posta è l'unica cosa che ancora funziona bene in questa tana di fango e sangue.
Probabilmente non hai semplicemente voluto. 
E il bello è che ti capisco anche, solo che proprio non posso fare a meno di continuare a scriverti.
Vivo in simbiosi col mio mortaio, io lo nutro, lui mi protegge: ci sono momenti in cui sembra che le montagne di fronte a me stiano per crollarmi addosso, abbattute dalle navi attraccate proprio nel mare a pochi Km da queste mia tomba. Ho paura e ce n'ho talmente tanta che mi trovo a fissare il vuoto con tutto il corpo che mi trema e le lacrime che scendo copiose a rigarmi il volto, a mescolarsi con la polvere.
Mi sono arruolato perché la mia sfida, la mia battaglia personale, l'ho persa...pensavo che tutto questo, la patria, l'onore, l'impegno mi avrebbero reso un uomo migliore, più degno di te, più degno di me...sì, quella sfida che ho perso eri, sei e sarai sempre tu. Tu che mi hai fatto capire che non esiste limite alle passioni che un uomo può vivere, all'amore che può far scaturire dal proprio profondo, ma anche che non c'è limite ai danni che questa marea può lasciare in seguito al suo passaggio. Il mio spirito purtroppo non sa nuotare.
Ricordo quella notte di 3 mesi fa quando ci incontrammo di fronte a Yussuf il giocattolaio, tu nascosta dal tuo velo, io nascosto dalla mia tristezza...allora non ebbi il tempo di pensare, di cercare di fermarti, di parlarti.
Ascoltai il tuo verdetto e mi ritirai nella mia cella.
Ora che capisco come tutto ciò che sono e che vorrei essere è solo un riempitivo alla tua assenza, al mio fallimento e mi trovo qui a rischiare ogni giorno di perdere la vita, la sanità mentale e la coscienza per quale conquista...qualche cicatrice e tanta amarezza dentro.
Il destino è buffo a volte: allo stesso modo di quando io cercavo di smuovere le montagne per raggiungere il tuo cuore, il tutto senza sapere se i colpi che davo avessero effetti positivi oppure deleteri, oggi mi ritrovo a manovrare un mortaio ed a sparare verso l'ignoto, al di là di ostacoli insormontabili, senza sapere se colpirò un mio compagno, se colpirò un nemico oppure semplicemente se colpirò la dura spiaggia.
Ora capisco come la felicità non esista veramente se non può essere condivisa con una persona speciale...e quando scrivo speciale li attribuisco il significato più alto che si possa dare a questa parola.
Se mai tornerò da questa battaglia, da questo conflitto maledetto e se mai ti rivedrò ti prego non biasimarmi se non saprò comportarmi, non biasimarmi se sbaglierò, non biasimarmi se non riuscirò a guardarti negli occhi...ci sono emozioni che non sono controllabili.
Le nostre strade si sono divise, hai spiccato il volo lasciandomi a terra...io non imparerò mai a volare, purtroppo non possiedo le ali e mai mi nasceranno, però se mai vorrai tornare, se mai un giorno capirai che questo soldato semplice potrebbe ancora regalare qualcosa basterà che ti presenti proprio lì, davanti a quel vecchio negozio di giocattoli per bambini ed io ci sarò.
Devo ricaricare il mortaio. E' il mio turno. Ti lascio.
Kentdeki Galip


Pellegrino delle sabbia

pedone

sabato 1 ottobre 2011

Nella frenesia: vita vissuta


Nella frenesia tipica dell’ora di punta, in cui la vita sembra scivolare via ad una velocità impressionante, guardandomi attorno, la mia attenzione si posa sulla vetrina di un bar poco distante, tanto da poter leggere il menù del giorno sui tavoli, e scrutando al suo interno, il mio sguardo si sofferma su una coppia di anziani.
Sono seduti ad un tavolo e l’uomo sta cercando degli spiccioli nel suo piccolo portamonete, mentre la moglie si sta massaggiando una caviglia. L’espressione è dolorante, ma non appena il marito le rivolge uno sguardo preoccupato, sorride.
Ecco, è arrivato il cameriere con bevande e scontrino, mancano pochi centesimi per il totale, così l’anziano signore chiede gentilmente al giovane di guardare nella sua mano per indicargli la quantità giusta; Il ragazzo con fretta prende il denaro e si allontana.

Un bambino, giocando, cade davanti a me, così mi piego per aiutarlo e proprio mentre le lacrime stavano per sgorgare dai suoi occhioni verdi, con gentilezza gli dico che va tutto bene e il bimbo con gioiosa gratitudine riprende a giocare.
Appena il tempo di alzarmi e nuovamente cerco con velocità quel tavolino che tanto aveva attirato la mia attenzione. Riapro il libro e lascio che il vento sfogli le pagine.

Il sole è ancora caldo, nonostante l’estate sia finita e l’inverno si faccia avanti. Mi godo gli ultimi raggi non perdendo di vista l’anziana coppia.
Adesso stanno parlando con lentezza, nel frattempo l’uomo prende una penna e un piccolo foglio, mentre la moglie sembra che stia facendo un elenco.

E così, noto qualcosa che troppo spesso passa inosservato.

Lo sforzo di una mano segnata dal tempo, pesante e stanca, che a mala pena regge una penna, troppo piccola e scivolosa da tener ben salda tra le dita. Quell’atto così semplice e ordinario appare segnato dalla fatica e dall’indecisione della mente che si sforza, con silenziosa dignità, di ricordare come si scriva una parola, vaga, lontana, forse imparata su una piccolo quaderno, gelosamente custodito, ma ugualmente logoro perché portato nello straccio col quale si andava a lavorare nei campi, oppure, sì, quella nuova parola che ripetono sempre alla tv e che pare così semplice sulle labbra di chi popola quella scatola quadrata che spesso, purtroppo, riempie le loro giornate. E poi c’è la nuova generazione, iper tecnologica, che vive nella fretta e per la quale tutto è facile e scontato a tal punto da far temere nel chiedergli qualcosa, del resto “ Poveri cari, hanno già tanto da fare,  non voglio rubargli del tempo ”.
Dopo qualche minuto, l’elenco è terminato, il fogliettino viene piegato accuratamente e consegnato alla moglie.
Entrambi si alzano, si rimettono il cappotto, e si dirigono verso l’uscita.

L’anziano apre la porta, la moglie gli stringe la mano e così, riprendono il loro lento cammino.
Solo dopo qualche secondo, al richiamo di un bimbo, i due si voltano con un sorriso bellissimo, illuminato da una inaspettata vitalità.
E’ proprio quel bimbo che poco prima era caduto davanti a me. Corre anche la madre, che lo segue preoccupata. Raggiunta la coppia, i tre si perdono un abbraccio e la madre rallenta sospirando.
Ormai è tardi, e il sole non è altro che una sfera infuocata al di là delle montagne, ma la sua luce è comunque sufficiente ad illuminare il cammino di quelle quattro anime che ora avanzano l’una di fianco all’altra, mentre la frenesia dell’ora di punta, a poco a poco, svanisce.
MaRea (M. R.)

dama di corte

sabato 24 settembre 2011

Storia di un operaio che incontrò un angelo, se ne prese cura e se ne innamorò



Tanto tempo fa in una terra lontana lontana viveva un semplice operaio. Era elettricista anche se in realtà cambiava solamente le lampadine ai lampioni del centro, affinché i ricchi della sua città potessero essere illuminati nel proprio cammino a qualsiasi ora della giornata ed in qualsiasi tipo di condizione metereologica.
Un lavoro umile, ma che eseguiva costantemente senza tanti se, senza tanti ma.
Viveva da solo in un piccolo monolocale e nonostante le ristrettezze economiche nelle quali versava si poteva permettere ogni tanto di coltivare alcune sue passioni: la musica, la lettura, l'arte.
Passioni vissute umilmente, da ospite. 
In realtà l'operaio viveva anche la propria vita da ospite.
Quando percorreva la strada che lo portava a lavoro stava sul ciglio nonostante fosse la parte con più buche e con più intralci. 
Quando pioveva era costretto a procedere con cautela per evitare di scivolare e finire in una pozzanghera; in realtà era una cautela inutile perché i rapidi passaggi dei mezzi sui vari specchi d'acqua causati dalla pioggia provocavano spesso delle grandi ondate che lo infradiciavano dalla testa ai piedi.  
Gli era stato insegnato, infatti, di non intralciare il passaggio a chi procedeva più rapidamente, ai ricchi in carrozza, ai gendarmi a cavallo, ai prepotenti a piedi. Lui era un semplice operaio: ad ognuno il suo posto, ad ognuno il suo ruolo.
Lo stesso quando era in centro a cambiare le lampadine: doveva farlo il più velocemente possibile e quando si apprestava ad andarsene doveva farlo all'interno dei fasci d'ombra proiettati dai lampioni: non sarebbe stato giusto che i ricchi vedessero un uomo di così basso livello camminare tra loro, anche solo a causa del suo lavoro.
Poco importa se spesso per rispettare questa regola finiva in vicoli poco frequentati nei quali dopo essere stato picchiato veniva anche derubato. 
Le regole sono regole e vanno rispettate. 
Tutto questo, gli dicevano, è per il bene delle persone che valgono più di te.
Un giorno mentre tornava da un turno di lavoro più duro del normale, nel quale un inaspettato sbalzo di corrente aveva fatto fulminare un gran numero di lampadine, stava camminando sul suo solito ciglio canticchiando malamente l'ultima canzone della sua band preferita quando vide in mezzo alla strada una figurina rannicchiata che sembrava si coprisse con un mantello fatto solamente di piume. Avvicinatosi leggermente gli sembrò che brillasse come di luce propria: impossibile, sicuramente era dovuto alla sua scarsa intelligenza che lo portava a vedere cose che in realtà non esistevano. Non era ricco e quel poco che aveva studiato in realtà non lo aveva capito tanto bene. 
Chiunque fosse colui o colei che si trovava sulla strada a lui non doveva interessare: il centro della strada per lui era vietato quindi non poteva metterci piede: sicuramente era un ricco che aveva giustamente bevuto un po' troppo ed ora si trovava a riprendere un po' d'aria prima di rincasare; si spiegava così anche il perché brillasse di luce propria. Probabilmente essendo i ricchi così importanti, i più grandi scienziati al mondo avevano inventato un vestito che li illuminasse anche quando era più buio, cosicché chiunque avesse potuto dire incrociando la loro figura: guardate c'è un ricco! Facciamoli spazio e ringraziamolo per tutto quello che fa per noi!
Proprio in quel momento stava però avvicinandosi una carrozza a tutta velocità ed andava talmente veloce che non si sarebbe accorta in tempo dell'ostacolo. L'operaio avrebbe fatto uno strappo alla regola però doveva avvertite lo sfortunato dell'imminente pericolo. Prima bisbigliò, poi alzo man mano la voce fino ad urlare di spostarsi perché la carrozza l'avrebbe travolto uccidendolo.
Il "forse-ricco" però non dava segni di ascoltarlo. Sembrava come immerso ad osservare la propria coperta e ad accarezzarla.
All'operaio non restava che far fermare la carrozza: avrebbe infranto la somma regola, ma i passeggeri probabilmente avrebbero capito. Si gettò quindi in mezzo alla strada agitando fortemente le braccia; la carrozza si fermò appena in tempo per non colpire l'operaio. 
Quest'ultimo non ebbe neanche il tempo di proferire una parola che il conducente era sceso dalla sua postazione ed aveva iniziato a picchiarlo ed a colpirlo con la frusta per i cavalli. 
Ad esso si univano gli insulti e gli sputi dei passeggeri.
Il tutto durò dieci minuti: l'operaio si trovò quindi steso a terra con la bocca riempita del suo stesso sangue misto alla polvere ed alle lacrime. Sarebbe stato meglio se la carrozza gli fosse passata sopra; avrebbe provato sicuramente meno dolore. 
La morte l'avrebbe salvato da questo supplizio.
Il "forse-ricco" era ancora dietro di lui, avvolto nella sua coperta.
L'operaio provava dentro di sé un dolore sordo: non era semplicemente il dolore fisico, che comunque in quel momento era quasi insopportabile.
Per la prima volta nella sua vita provava amarezza. 
Provava rabbia per un mondo che non da lo stesso spazio a tutti. 
Provava rabbia per un mondo che prende ma non si sa mai se renderà indietro con i dovuti interessi.
Ma questo l'umile uomo non poteva capirlo.
Avrebbe voluto andarsene e lasciare quell'essere che gli aveva provocato così tanti problemi là in mezzo alla strada. Ma l'uomo era buono e i buoni non sanno seguire la strada più semplice. 
I buoni non imparano mai dai loro errori. 
I buoni sono talmente perseveranti da risultare dementi.
I buoni, insomma, camminano sempre sul ciglio.
Si avvicinò zoppicante e improvvisamente capì che ciò che aveva davanti era veramente un angelo. I ricchi sono belli, ma l'essere che aveva davanti era più che bello.
Non era definibile con parole terrestri, con un linguaggio umano.
Biondi riccioli cadevano disordinatamente ai lati del volto, incorniciando due occhi infuocati di ghiaccio ed una bocca fine come un ruscello, appetitosa come una mela.
La pelle non era perfetta come l'operaio si immaginava fosse quella degli angeli. In realtà niente in quel che vedeva era perfetto. Si immaginava che gli angeli non cadessero mai, che potessero soltanto volare, librarsi in volo sopra i comuni mortali, ancora più dei ricchi, gendarmi o prepotenti. Quest'angelo era sporco, affaticato, ma soprattutto spaventato. 
Ma a lui non importavano queste credenze. 
Se ne era innamorato.
Riuscì nonostante le numerose ferite a caricarsi l'angelo sulle spalle ed a portarlo fino in casa sua dove lo coricò sul proprio letto e nonostante l'estenuante turno di lavoro che lo aspettava, passò tutta la notte a prendersi cura del suo angelo.
Cercò per quanto possibile di far calare la febbre che faceva scottare la bianca fronte, di pulire la polvere che macchiava il suo abito, le sue ali candide, le sue membra.
Lavò le lacrime che rigavano il suo volto. 
L'operaio non pensò neanche per un secondo alle sue ferite, al fatto che ogni movimento provocava in lui dei dolori insopportabili e l'apertura delle croste ancora fresche.
Anche quando l'angelo aprì gli occhi l'operaio cercò di sorridere, di nascondere il dolore che gli bruciava la pelle, le ossa, il cuore.
Voleva che l'angelo non si preoccupasse, che pensasse solo alla propria guarigione e a recuperare le proprie energie.
La mattina l'angelo parlò.
Si chiamava reine.
Era caduta a causa di un altro angelo: erano legati col sangue, il più alto vincolo esistente, però nonostante gli angeli fossero creature celesti non erano privati completamente di tutti i sentimenti umani.
I due angeli avevano litigato e reine per la sofferenza dovuta al contrasto con il suo legante aveva perso il controllo del suo volo ed era caduta.
Finché non avesse recuperato l'uso delle ali sarebbe stata confinata nel mondo dell'operaio. Quest'ultimo credette per un momento che sarebbe potuto essere lui il nuovo angelo legante.
L'operaio era uno sciocco. Pensava ancora che esistessero le fiabe con il lieto fine.
Una creatura terrestre non ha speranze con una creatura che proviene da una realtà più elevata dalla sua. Soprattutto se possiede dei legami troppo forti da poter essere rotti con il dono di amore, attenzioni e carezze.
L'operaio si prese cura per qualche mese dell'angelo. Ormai il semplice elettricista non camminava più bene; le ferite provocate dal pestaggio non erano state trattate come necessario e il fisico del lavoratore ne aveva risentito irreversibilmente, ma nonostante questo lavorava con più velocità, con più vigore, così da poter ricevere una paga migliore. Più soldi significavano più cure per reine. 
Il suo angelo meritava il meglio anche al triste costo della salute fisica e mentale dell'operaio.
Una mattina trovò l'angelo in piedi davanti alla finestra. Un altro bellissimo angelo li porgeva la mano: era colui che aveva legato Reine a sé col sangue.
L'operaio capì in un istante: non aveva alcuna possibilità di poter competere con ciò che quell'angelo sceso dal cielo poteva dare a Reine. Lui era il suo legante.
I suoi sforzi, il suo sudore, le sue aspettative venivano vaporizzate dalla forza di tale legame.
Era giunto il momento degli addii.
Reine si girò solamente per consegnargli una piccola roccia tagliente e poi, con un sorriso, spiccò il volo con l'altro angelo.
Era finita la fiaba.
Si dice che l'operaio continui tutt'oggi a percorrere il ciglio di quella strada per andare a lavoro e che ogni mattina si affacci a quella finestra, sempre alla stessa ora, con l' infantile speranza che quell'angelo possa tornare, con l'infantile speranza di capire il perché di quella pietra. 
O semplicemente con l'adulta speranza che il sole da quella mattina non sorga più.

pedone
Pellegrino della sabbia

mercoledì 7 settembre 2011

overture


il cantastorie
Udite udite giovini e vegliardi,
nostra maestade die' disposizione
di porre gli intelletti più gagliardi
al suo servigio pe' un'alta effusione
d'ogni arte e degli arditi baluardi,
ch' all' uomo sono il sommo guiderdone.
Erigere si deve ogni intelletto
qui dove la realtà è lordo fumetto.


Qui ove come ottuso gamberetto
credendo d'avanzar si regredisce:
l'essenza è surclassata dall'aspetto
e nella forma sol tutto finisce,
l'italico paese, il lazzeretto
delle mere cervella rese lisce,
senza pensieri aguzzi o acuminati,

deserti per mediatici selciati...


Sermoni ipnotici abbiam trangugiati
avvezzi ad un olezzo incantenante.
Re Dancan, re di sguardi accalappiati
è il savio e il solitario governante
che acume e ingegno ha sempre corteggiati
e ripudiò l'inezia sacripante
nella sua corte ove con deferenza
si china il capo e non per obbedienza.